Ho seguito Sanremo solo nelle serate di venerdì e sabato.
L’ho fatto perché volevo rendermi conto del grado di evoluzione della musica italiana nel post Pippo Baudo.
Mi sono reso conto che:
– l’orchestra della RAI è a livelli stratosferici;
– uno dei cameraman era innamorato di una delle coriste (e secondo me aveva ragione);
– le scenografie erano superlative;
– le luci erano altrettanto ben curate;
– la Ferilli, pur restando una borgatara, ha guadagnato qualche punto rispetto all’idea che avevo di lei. Mi è piaciuta anche quando ha fatto indurire il pisellino al figlio di Amadeus, al punto da renderlo invalido per sei mesi, incarnando il sogno dei ragazzini ancora devoti alla pichka;
– la canzone che mi è piaciuta di più è QUESTA;
– Iva Zanicchi ha cantato un pezzo scritto da qualcuno che la voleva morta;
– Amadeus è il nuovo Pippo Baudo;
– non era un concorso canoro.
Sanremo non è una vetrina sulla musica italiana, bensì uno strumento per “indirizzare” le masse.
Sanremo è un mezzo di rieducazione.
L’elettroshock zuccherino.
Sanremo è una lezione impartita dal sistema, e destinata a riallinearci senza troppi traumi.
Infatti il concetto del “fluid gender” è stato spinto oltremodo.
I monologhi parlavano di culattonesimo.
I cantanti dimostravano culattonesimo.
Chi ha vinto cantava in gonna e camicia da donna pur essendo nominalmente maschi.
Non ce n’era uno che sembrasse più maschio di Elisa.
Insomma il messaggio era: se non sei gay e non ti adoperi perché il culattonesimo sia la regola, sei una merda.
E io replico con una vaginetta anticulo:
fracatz